Wednesday, September 28, 2005

BREAST WATCHING

Contemplare la natura, osservarla nella sua quotidianità, scoprirne i dettagli ma senza turbarla mai, senza scuoterla e senza intaccarla sembra essere un'attività molto gradita all'essere umano, specie se di sesso maschile e ormai adulto. L'individuo “maschio adulto” sviluppa un amore smisurato per l'ambiente che lo circonda, lo studia e lo vuole conoscere nel dettaglio, per poi ricavarne il maggior numero di informazioni possibili.

Nella normale evoluzione della specie, l'uomo maschio adulto raggiunge una certa fase della sua vita nella quale parimenti si danno tre casi:
A. non ha una preda da moltissimo tempo ma ormoni in quantità spropositata;
B. ha una preda da molti anni dalla quale non è più molto incuriosito;
C. è un uomo maschio adulto e questo basta.
Egli si dedica, in questa fase, ad una profonda attività contemplativa dell'universo femminile nella quale mescola codardia, bramosia e strategia: il breast watching. Alcuni rari esemplari delle specie “maschio adulto” declinano in modo naturistico la fisiologica tendenza alla contemplazione insita nell'essere umano praticando al massimo il bird watching. Abbiamo una notevole quantità di informazioni sugli uccelli, sui loro comportamenti in natura e sulle loro abitudini. La maggior parte della specie “maschio adulto” si dedica al breast watching, ma delle donne ancora non hanno capito niente. Eppure, lo sport del breast watching dà all'esemplare medio della specie “maschio adulto” l'impressione di essere un gran intenditore e la presunzione di rendere inutile qualsiasi tipo di scansione corporea che vada dai raggi X alla tac: guardando le tette di una donna egli suppone di essere in grado di derivarne uno screening completo, fino quasi a poter dire quale sia il colore che la sua preda preferisce.

L'appostamento è fattore cruciale: nella selva umana dei pub nei quali si canta il karaoke, colui che pratica il breast watching sa riconoscere il tavolino migliore che permette di osservare contemporaneamente:
A. tutte i possibili esemplari in entrata;
B. tutti i possibili esemplari in uscita;
C. tutti i possibili esemplari presenti;
nonché di immaginare tutti i possibili esemplari non presenti ma che si vorrebbe lo fossero. Egli non si nasconde dietro cespugli folti ma dietro un boccale di birra di dimensioni extra large poiché qualcuno gli ha raccontato che la birra contiene ormoni femminili e, di conseguenza, posizionare tale fonte di attrazione nel punto strategico permette di attirare -nelle sue intenzioni- alcuni dei migliori esemplari presenti sulla piazza. Mentre è impegnato nell'osservazione, il breast watcher è perfettamente in grado di astrarsi dall'ambiente circostante: non sente la musica del “Canta Tù”, non è attratto dalla pallina che zompetta sulle parole della canzone che scorrono in sovrimpressone, non ascolta esemplari del suo stesso sesso a meno che non siano dipendenti del locale e la sua strategica birra non stia per terminare. Il breast watcher si impegna anche a stilare categorie mutualmente esclusive nelle quali raggruppa gli esemplari che osserva: tette - quali tette?; tette abbozzate; tette piccole; tettine; tette normali; tette a punta; tette champagne; tette-stropicciaci-la-faccia-in-mezzo; tette grandi; tettone; tette esagerate. La varietà di classificazione si complica a seconda che le tette siano cadenti, sopportino in modo ordinario la forza di gravità o la sfidino puntando verso il cielo. Una volta compiuta la preliminare fase di classificazione dell'esemplare, il breaast watcher ne deduce condotta di vita, abitudini sessuali, abitudini alimentari, libri e film preferiti, il tipo di infanzia che ha avuto, l'andamento scolastico ed i titoli ottenuti, più un'infinita serie di informazioni sussidiarie e corollari sulla vita della ragazza in questione.

Ma il breast watcher sa che il suo è uno sport di sacrificio. Il breast watcher non caccia: guarda e basta. Non tocca: guarda e basta. Conosce nell'immaginaria intimità che deduce dalla sua attività di osservazione milioni di donne, incontrate e studiate durante tutti i giovedì sera alla sala karaoke del paese. Il breast watcher non acchiappa. Guarda, beve, a volte chiacchiera col breast watcher a fianco per confrontare i propri risultati. All'improvviso, arriva uno sparuto e raro esemplare di cacciatore che spara le sue cartucce e cattura le prede più allettanti senza che queste oppongano la minima resistenza. Il breast watcher pensa che osservare la natura sia ua cosa deliziosa, ma che andare in buca ogni tanto non sarebbe male. Chiude il taccuino e se ne va. Ne conosce a frotte. Non se ne fa nessuna. Ma lui è il breast watcher e un giorno conquisterà il mondo.

Wednesday, September 14, 2005

COUNTDOWN

Non avevo mai pensato che sarebbe arrivato il giorno in cui anche io avrei dovuto fare i conti con il futuro. Uno non se l’aspetta mai: fa progetti, pianifica la sua vita e poi la vive, ma solo dopo aver superato un giorno speciale. Uno di quei giorni che mentre li aspetti fai il conto alla rovescia pensando che appena comincerà la tua vita sarà inevitabilmente diversa. Sentirlo raccontare dagli altri non fa lo stesso effetto. A sentirlo raccontato sembra solo che una persona viva o si lasci vivere dalla sua vita, ma tu non presti mai attenzione al countdown che sta facendo. Poi ci arrivi anche tu:hai progettato, pianificato e adesso conti alla rovescia. Respiri e conti. Respiri e conti. Hai da fare, anche troppo, mille cose da leggere, preparare, stabilire, ordinare. Però stai lì, immobile e impaurito. Respiri e conti. E più respiri, più conti, più il conto alla rovescia sta per finire.
Contare alla rovescia non lascia via d’uscita: per quanto lontano sia il numero da cui parti arrivi sempre alla fine. Fare i conti col futuro ha qualcosa di paradossale. Innanzitutto non dovresti sapere quando arriva il futuro, perché se lo sapessi non sarebbe futuro, sarebbe solo un presente “spostato un po’ più in là”. In più, non ha senso: il futuro dovrebbe essere lontano, e invece puoi contare alla rovescia e quando dopo il 3 viene il 2 e poi l’1… poi devi incominciare ad andare. Un piede davanti all’altro, sempre più vicina al bordo… salta, dài. Ecco, il futuro è presente. Sono in una situazione dove il mio futuro è il mio presente “spostato un po’ più in là”. Devo lucidare le scarpe per camminarci dentro a testa alta, nel mio presente un po’ più in là.
La sensazione strana quando arriva il tuo futuro è che non c’è futuro, oltre il tuo futuro. In questo preciso istante non riesco a pensare al mio futuro vero, quello indeterminato. Al massimo mi penso vecchia, con un gatto sulle ginocchia, il lavoro a maglia che non sono capace di fare vicino ai piedi e un bel bicchiere di vino caldo in mano. Quello che sta in mezzo tra questa immagine e il mio adesso è un buco, riempito solo dall’incessante battito del mio cuore. BUM, BUM, BUM… e più batte, più il futuro si avvicina.
E più si avvicina e meno ci credo che sta succedendo anche a me.
100… 99…98…97…

Friday, August 19, 2005

LA CERTEZZA DEL TRENO

Una volta ero certa che il treno fosse una certezza. Ha degli orari fissi,pensavo. Sì, beh, anche qualche minuto di ritardo, come sempre. A volte mezz'ora intera, ore intere. Però il treno è il treno. Passa. Torna. Avanti. Indietro. Avanti. Indietro. Sciopero. Avanti. Indietro. Sciopero. Avanti, indietro, avanti... Mia madre diceva che sul treno bisogna saltare perché passa una volta sola. Non te lo perdere! Ma cosa succede se sali sul treno sbagliato? Una volta un mio amico andava su un treno sbagliato nella direzione opposta rispetto all'aeroporto dal quale doveva partire. E' sceso nel bel mezzo del niente. Ha preso un taxi ed è arrivato in tempo per tornare a casa. Se prendi il treno sbagliato puoi sempre tornare in taxi.
Come si fa a sapere se quel treno che passa veloce è quello che devi prendere davvero? Passa così in fretta che non hai neanche il tempo di leggere la destinazione sul tabellone in alto: il treno non ti aspetta... O sì? Ci può essere un treno subdolo, che sa di essere sbagliato, che ti illude di star per partire, che ti minaccia sfiatando dalle valvole sui binari: “Sbrigati, stupida, non vedi che sto per partire?”. E tu corri, corri. “Dio, fa che quella porta non si chiuda proprio ora!”. Corri. La porta non si chiude, tu sali, prendi un respiro profondo, asciughi il sudore col dorso della mano, chiudi e apri gli occhi, ti volti, la porta è ancora aperta... Ci sarebbe stato ancora tempo per pensarci, ma ormai il treno l'hai preso. Ci ripensi: forse è meglio scendere... Ne passerà un altro, prima o poi. Muovi un passo verso gli scalini e il marciapiede è così vicino: dài, scendi! Ma no!! La porta si chiude appena tu maturi questa bizzarra idea di tirarti indietro. Il treno parte. Ed è quello sbagliato. O almeno, sai che tra tanti treni che avresti potuto prendere forse quello era l'ultimo. Te la sei giocata male. Te lo sentivi, quando hai fatto il biglietto. “questo treno oggi non mi va”. E invece lo prendi, va' a capire per quale motivo non te ne sei rimasta a casa tua...
A me piace viaggiare in treno. Quando sono in aereo o in nave, mi manca la terra sotto i piedi. Mi si riempie la testa di brutti pensieri. In treno a volte c'è qualche scossone. Anche i treni deragliano. Ma ho la terra sotto i piedi. Tutte le mattine, per tante mattine, ho preso il treno avanti e indietro. Avanti con la luce, indietro col buio. Mi sentivo grande. Una grande pendolare. Mai sbagliato treno una volta. Qualche volta l'ho perso, ma ne ho subito trovato un altro e non è mai stato un gran danno. Oggi viaggio su un treno che forse è sbagliato. Aspetto il controllore: guarderà il biglietto, spalancherà gli occhi e dirà “Signorina... ha sbagliato treno”. Chissà dove finirò. E devo anche pagare la differenza del biglietto.

Monday, July 18, 2005

INIZIANO I SALDI

Ci sono regole ben precise per stabilire quando i negozianti possono iniziare i saldi.
Ci sono anche regole precisissime su come comportarsi durante i saldi.
Occhio al cartellino, ce lo dicono sempre in tivvù, deve indicare il prezzo vecchio, il prezzo nuovo e la percentuale di sconto applicata all'articolo. Anzi, se ce la facciamo, andiamo una settimana prima dell'inizio dei saldi a vedere quanto costano le cose che ci vorremmo assolutamente comprare ma che sono esageratamente fuori dalla nostra portata, e poi a saldi iniziati verifichiamo che il prezzo intero non sia stato modificato a rialzo. Se ci dovessimo accorgere di tale aberrante crimine contro l'umanità, rigore vorrebbe che rinunciassimo ad acquistare l'oggetto che ci ha ridotto a sbavare come il cane di Pavlov per mesi ogni volta che passavamo davanti a quella maledetta vetrina. Se in più fossimo cittadini coscienziosi e rispettosi dell'ordine e della disciplina e ai quali sta a cuore il bene della collettività, denunceremmo i disonesti e, al grido di “lei non sa chi sono io”, chiameremmo il vigile che passa di lì e che, di certo, risolverebbe l'annosa questione in due minuti, chiarendo che non abbiamo assolutamente ragione e che la settimana scorsa avevamo visto male.

Ma noi non siamo così. Noi compriamo tutto, basta che sia in saldo. Non importa che il prezzo sia quello di prima. Non andremmo mai a vedere se ci hanno fregato, perché noi quella cosa la vogliamo e siamo anche dei dritti, perché la ottieniamo anche pagandola di meno. Non importa se non è vero: c'è un cartellino con un numero tagliato, un altro numero in rosso con il simbolo % a fianco e il numero scritto più in grande ma più basso dell'altro (che miracolo), il nostro sollievo ultimo, finale, il nostro grande affare, proprio lì, in basso. Cuciture scucite? Suole bucate? Vetro scheggiato? Pietruzze opache? Macché. Non esiste. I negozianti passano una crisi che non si ricordavano (ma davvero?) da anni, per cui, è logico, anche loro hanno interesse ad abbassare prima possibile il prezzo della merce. E, se anche loro hanno bisogno di denaro vuoi che vengano a fregare proprio noi che siamo disposti a pagare, nonostante i saldi, un articolo ad un prezzo 10 volte di maggiore rispetto a quando l'han realizzato? Non esiste.
Fiducia reciproca, guadagno assicurato. Per tutti.

Il saldo è l'occasione, lo sfizio, il divertimento. Ma basta davvero mettere su qualsiasi cosa un cartellino con un prezzo tagliato, una percentuale e un grande prezzo più basso? Uno straccio può diventare l'abito dei nostri sogni solo perché è in sconto? Non sarà che è lo sconto che ci fa desiderare una cosa che non avremmo mai considerato di avere nel nostro armadio, nella nostra cucina... o nel nostro cuore? Se non ci fosse lo sconto non lo vorremmo ma, dato che è in sconto, “massssì, dài, tanto è in sconto, se non lo prendo adesso non lo prendo più”. Non sono mica i cinesi che minacciano gli standard di qualità... Credo che siamo proprio noi i primi a tendere al ribasso. Vogliamo e prendiamo solo se ci costa meno di quanto costerebbe in generale, al negozio sotto casa come nella vita. Che fine ha fatto la fatica che facevamo da bambini, quando le cose costavano davvero tanto e ci prendevamo un salvadanaio e mettevamo via soldo per soldo fino a quando avevamo la somma esatta per comprare il nostro desiderio? Chi ha mai pensato ai saldi, quando eravamo piccoli? Con gli anni, però, ci siamo fatti furbi e abbiamo imparato che c'è sempre un momento in cui possiamo avere la stessa cosa per meno. Chissenefrega se siamo in concorrenza con altre 700 persone che hanno fatto il nostro stesso ragionamento. Chissenefrega se il prezzo di partenza è più alto della settimana scorsa. Chissenefrega. Chissenefrega. Abbiamo una scadenza: sappiamo che potremo avere quello che desideriamo a partire dal 15 luglio, nella nostra provincia. Perché lottare per averlo prima? Perché preoccuparsi o crearsi aspettative? 15 luglio: vado a prendermi quello che desidero. O, più spesso, 15 luglio: inizio a desiderare. Poi il lo 16 compro.

Non ci accorgiamo neanche che, alla fine, siamo nudi come l'imperatore. E a chi ride perché si accorge della nostra nudità e della nostra ingenuità risponderemo che sono solo invidiosi delle nostre conquiste. Salvo poi trovarci davanti allo specchio e accorgerci che, spesso, “il grande affare” non coincide mai con i saldi. Più nella vita, che nel negozio sotto casa.

Saturday, May 14, 2005

NUMERI PRIMI

Si dice numero primo un numero che non è divisibile per nessun altro se non per se stesso. 1 è un numero primo. 3 anche. 7 pure. Poi le cose si complicano e non mi ricordo più. Azzardo un 11. Credo che una persona che non si spacca per nessun'altra se non per se stessa si potrebbe definire un egoista, uno stronzo egocentrico. Ma, si sa, la matematica non dà mai giudizi di valore. E' per questo che è bello non essere una mente matematica.

Ciò che è più facile numerare nella nostra vita sono i nostri anni, su questo non c'è dubbio. Mi chiedevo, però, se nella sequenza dei numeri dei nostri anni esistano anche numeri primi nel senso di “speciali”. Numeri primi come il primo dente che cade o la prima volta che si fa l'amore. Numeri unici. Traguardi, li chiamano. A dire il vero, non saprei se definirli traguardi. Un traguardo si raggiunge dopo uno sforzo. Gli anni passano anche senza sforzo. Anzi, la maggior parte dei nostri anni passa senza che noi si debba neanche alzare un dito o mentre alziamo le dita per fare le cose sbagliate. Un giorno ti svegli e ti accorgi che all'altezza dell'addome sei pieno di nastri di stoffa colorata rimasti impigliati dopo aver attraversato l'ennesimo compleanno-traguardo e pensi: ma se non mi sono neanche messo a correre?! Possibile che sia già passato così tanto tempo?! Non c'è gusto a tagliare quei nastri, per questo credo non si possa dire che arrivare ad una certa età costituisca un traguardo. Ci sono cose, eventi che sono traguardi. Il diploma è un traguardo. La laurea pure. Il primo colloquio di lavoro anche. Anche solo fissarlo è un gran bel traguardo. Però poi anche qui le cose si complicano e non vorrei sbilanciarmi. I nostri traguardi possono essere tanti e diversi. Li decidiamo noi. Ma un compleanno... Arrivare ad una certa età è davvero un traguardo? Considerando che siamo minacciati costantemente dal terrorismo internazionale, dall'obesità, dai messaggi televisivi sbagliati, dal consumismo che ormai non consuma e da centinaia di migliaia di pericoli veri o presunti che siano, arrivare ad una certa età, qualunque essa sia (1 o 101 non fa differenza), è più che altro una conquista. Potremmo rimanerci da un momento all'altro, ci dicono in continuazione. Noi ci tocchiamo, dovunque ci sembri opportuno ed appropriato, e continuiamo a conquistare i nostri giorni.

Nonostante tutto, ogni anno che passa, ogni nastro strappato con l'addome e rimasto lì, ogni benedetto e inevitabile compleanno accade qualcosa di speciale: ci fermiamo a pensare alla nostra vita. Di solito non lo facciamo mai, al massimo rimuginiamo. Mettiamo il rallentatore, per un giorno, ed esaminiamo con attenzione la nostra corsa. Ecco, si spacca il nastro. Questa volta sono 25: tondi, belli, quadrati, ma quadrati perfetti. Non ho mai avuto 25 anni. Nuovo, nuovo, tutto nuovo. Sento le gambe un po' affaticate, ma i muscoli del polpaccio, della coscia,e le ginocchia tengono ancora benissimo. Sudo. 25, nastro d'argento. Lentamente la mia testa si volta all'indietro. Oggi ho tempo di guardare alla strada che ho fatto. Sì, quella volta ho sbagliato. Sì, quella volta ho fatto bene. Sì, ho sofferto. Sì, me ne sono fregata. Sì, ho fumato di nascosto. Sì, ho vomitato nel corridoio di casa dopo una sbronza colossale. Sì, quella volta non ho fatto in tempo neppure a raggiungerlo, il corridoio, e mi sono vomitata sulle scarpe in giardino. Sì, quel giorno non sono andata a scuola. Sì, quella volta sono stata proprio brava. No, indietro non si torna, non siamo su un tapis roulant, non si può invertire il senso di marcia. Lentamente, la mia testa torna dritta e fisso un punto davanti a me. 25, nastro d'argento. Sì, da domani dieta. Sì, quella domanda di lavoro la faccio. Sì, presto partirò. Sì, quell'esame lo passo. Sì, solo acqua naturale. Sì, manderò presto le mie cose a qualcuno che le legga. Sì, mi diranno di no. Sì, mi metterò a piangere come quando ero piccola. Sì, prima o poi imparerò a reagire in un'altra maniera. No, non sono i buoni propositi per l'anno che verrà. Il 1 gennaio tutti promettono qualsiasi cosa e il giorno dopo già non lo ricordano più. Oggi io prometto a me quello che vedrò più avanti sulla mia pista.

Questo compleanno non sarà un traguardo tagliato con fatica, volontà, sforzo ma sono in corsa e, anche se non l'ho deciso io di mettermi a correre, ormai ci sono. Ed è bellissimo strappare ogni anno un nastro nuovo, tenermeli tutti stretti all'addome, passarmeli intorno al collo, allacciarmici i capelli, farmi una collana, usarli per saltare la corda, lanciarli a qualcun altro per tirarlo verso di me. Sono i miei anni, la mia corsa. Inutile negarlo, siamo tutti contenti di compiere gli anni, anche se sono sempre di più. Sì, gli anni che restano sono sempre meno. Ma vuoi mettere con la soddisfazione di aver corso senza mai fermarti?

Wednesday, April 27, 2005

IO E LUI

Ecco, è caduto a terra. L'ho spinto? L'ho perso di vista? Cos'è accaduto? Fino a pochi minuti fa era tutto normale: siamo stati insieme tutta la mattina ed è andato tutto bene... e adesso? Sono stata davvero io? Un'intensa vampata di calore mi avvolge. Gli occhi si chiudono automaticamente. Sono sicura che cadendo da lassù si sarà frantumato. Sono sicura che non darà nessun segno di vita. Il tonfo sordo che fa cadendo continua a riecheggiare nelle orecchie. Lo odio, lo odio, ma ho così bisogno di lui... Come posso vivere senza di lui? Mi è costato tanto averlo con me... E non sono l'unica coinvolta in questa perdita. Come dirlo alla mia famiglia? Anche per loro ormai era uno di casa... Mio padre si infurierà con me un'altra volta.

Sì, è vero, abbiamo già avuto problemi in passato. Non una volta. Appena incontrati era tutto meraviglioso. Ho deciso di metterlo alla prova, caricandolo di responsabilità ed informazioni per me preziose. Sembrava funzionare a meraviglia. Direi che passavo più tempo con lui che con chiunque altro. Mi ero imposta di conoscerlo nei minimi dettagli: ogni sua esigenza non m'avrebbe mai colta impreparata. Avrei cercato di rispondere ad ogni suo minimo cenno. Sarei scattata ad ogni suo segnale. L'avrei curato, accarezzato, mi sarei presa cura di lui, l'avrei portato con me ma badando sempre che non prendesse né freddo né caldo. Ma come ho potuto essere così sciocca da lasciarlo andare? Stupida, stupida idiota che non sono altro.

All'improvviso un giorno non mi ha più rivolto la parola. Non ha più voluto interagire. Si è portato via i miei pensieri, le mie confidenze, i miei sforzi di mesi interi, i miei ricordi. Se n'è andato e basta. Senza preavviso, senza nessun cenno. Io stavo malissimo, quel giorno. Ero addirittura finita all'ospedale e lui era con me. Sono tornata al lavoro e non s'è più fatto vivo. Maledetto. L'ho odiato perché sapevo che non potevo far niente. Ho chiamato tutti quelli che lo conoscono bene e nessuno sapeva cosa dirmi. Li ho colti di sorpresa: come poteva smettere di andare tutto bene dopo così poco tempo che stavamo insieme? Maledetto, l'ho davvero odiato. Poi mi hanno detto che sarebbe tornato, ma ci sarebbe voluto tempo e avrei dovuto pagarla cara. Io, io che non avevo colpa avrei dovuto pagarla cara... IO! Non mi sembrava possibile. Mi sentivo una stupida. A nessun altro poteva succedere. O forse poteva succedere a tutti ma, guarda caso, succede più spesso alle donne... e si sa che le donne con certe cose non devono avere a che fare. Non ci sanno fare, le donne.

Poi torna, quando fa più comodo a lui e ai suoi amici. Sì, lo ammetto, l'ho pagata cara. Molto cara. Ma la cosa più importante è che lui fosse con me. Era tornato con tutti i miei ricordi, le mie confidenze. Mi aveva riportato le vecchie lettere e le foto dell'anno scorso. Lo stringevo forte, non mi sembrava vero. I miei sorrisero, anche se sapevano il prezzo che avevo dovuto pagare. Poi iniziò un mese circa di vita intensa ancora insieme.

Fino a stamane. Fino a quando non mi sono distratta un attimo è m'è caduto lo zaino dalla spalla. BUM! Secco. Orribile. Sento un rumore di salvadanaio che si rompe. Temo che anche i miei ricordi se ne vadano definitivamente. Sono affranta: non era passato neanche un mese... Lo odio ma sento di averlo perso ancora e mi sembra di morire. Mi sfugge dalle mani e cade. Stavolta la colpa è mia. Solo mia. Lo raccolgo. Sembra integro, ma so che è guardando dentro che arriveranno le brutte sorprese. Lo sportello è aperto come una ferita. Non si rimargina. È ferito. Mioddio, è ferito. E anche questa volta non so che fare. S'accende, però. Compare il menù di selezione. Sono agitata, mi viene da vomitare. Funziona. Ma è ferito. Sembra che possa andare lo stesso ma sono costernata. Il mio computer mi ucciderà, uno di questi giorni. Se non sarà per uno di questi spaventi sarà perché per aggiustarlo mi saranno serviti tutti i soldi che possiedo e sarò una barbona. Computerizzata, sì, ma sempre una barbona.

Così adesso siamo qui, io e lui. Io che aspetto che lui mi dica che mi sono illusa e che ad una botta così non si rimane integri. Mi aspetto di vedere fuoco e fiamme che escono dallo sportello del lettore cd. Mi aspetto che si spenga da un momento all'altro. Lo odio, ma senza di lui non so stare. Nuove forme di dipendenza, le chiamano. I battiti del mio cuore vanno con la sua RAM. Dio come lo odio!

I GIORNI UN PO' COSI'

Non ci riesco. Proprio non ci riesco. Oggi la mia testa non riesce a rimanere ferma: vola da un'immagine all'altra, da un'idea all'altra, da un pensiero ad un altro e non porta con sé nulla. Salta di qua e di là come una rana senza produrre niente. Sono inquieta e non riesco a rassegnarmi alle casualità. Ci sono delle cose che semplicemente accadono e continuare a pensarci non serve a niente, tanto sono già successe. Mi accorgo però che non sto saltando da un'oasi ad un'altra. Non salto su montagne di pietre preziose né su ricordi felici. Sto saltando da un fosso ad un altro. Da un brutto ricordo al fastidio che mi ha provocato uno stupido fatto accaduto ieri. Da un vecchio nervosismo a uno nuovo. Mi sono completamente infangata di ricordi un po' così.

E' strano come la vita, a volte, possa essere così... Così. Riflettevo sul fatto che abbiamo una vita sola e che le cose che ti restano in mente sono sempre le più stupide. Non ricordo quando sono nata. Forse basterebbe fare uno di quei folli corsi di rebirthing e scoprirei che non ho dimenticato niente, in realtà. Non ricordo com'ero vestita il primo giorno di scuola. Basterebbe cercare una fotografia, forse. Ma, chissà perché, non riesco a farmi venir voglia di cercarla. Rimangono fortissimi i brutti ricordi. Rimangono i rimpianti e i rimorsi. Rimangono gli incidenti. Di queste cose ricordi sempre tutto. Qualcuno deve aver detto che i traumi si imprimono con maggior forza nella mente. Ma se la nostra mente fosse come lo studio di un fotografo? Se potessimo aprire una bottiglia di acido e cancellare il negativo dei brutti ricordi? Se poi potessimo anche eliminare ogni traccia di questo gesto, gettando l'acido nello scarico... e poi sviluppare, fissare, ingrandire, dettagliare solo i ricordi belli? Scattiamo milioni di fotografie ogni giorno e non siamo mai noi a scegliere quelle che finiscono nel nostro album dei ricordi.

Perché non riusciamo a rassegnarci alle casualità e a continuare? Chi ha detto che le cose che sembrano contare di più sono quelle che contano davvero? Ci preoccupano i soldi che non abbiamo. Ci preoccupa il fatto che non riusciamo ad averli. Ci preoccupano le cose che possediamo, perché se si spaccano dobbiamo ricorrere a soldi che non abbiamo. Ci preoccupiamo di avere sempre più cose, però. O siamo pazzi o stiamo sbagliando. Ma come mai non riusciamo ad allargare le braccia e a dire “Pazienza”? Perché non facciamo un respiro profondo e non proviamo a ricominciare? Lasciamo che il nervosismo, la noia, il disagio se ne vadano da soli, come quando digeriamo male e aspettiamo che il mal di pancia vada via. Sì, ma quanto pesante abbiamo mangiato, questa volta? Passerà, diciamo, e intanto soffriamo. Un po' alla volta il dolore se ne va, ma soffriamo. Poi piano piano il nervosismo si calma. Lì e solo allora ricominciamo a respirare, naturalmente. Forse anche i giorni un po' così vanno elaborati, trascorsi, fatti passare. Forse più che bravi fotografi che scelgono quale dettaglio fermare dovremmo essere bravi selezionatori. Dovremmo saper decidere meglio cosa farà o meno parte del nostro album di fotografie. Quello che ci manca è la capacità di buttare via definitivamente quello che non ci piace. Ci hanno dato un cervello troppo complicato e fine per scartare e dimenticare. Ciò che ci distingue dagli altri animali è ciò che ci costringe a giorni un po' così. Forse, questo è proprio il bello di noi. Ma oggi che è un giorno un po' così non riesco proprio a farmelo piacere, questo bello di noi.

Saturday, April 23, 2005

GLI INVENTORI, GLI ESPERTI, I VERI GENI... E NOI

Tutto ciò che è importante sapere nella vita l'ha scoperto o inventato qualcuno. Geni, scienziati, talenti delle arti e della tuttologia, esperti di qualsiasi genere e razza. Ogni indagine, ogni sondaggio, ogni frase oggi sa di già detto o ricorda quello che qualcuno ha già analizzato, scritto, tabulato, dimostrato. Esperti in ogni trasmissione ci dicono cosa dobbiamo dedurre da quello che accade nella politica e nella società rifacendosi ad altri esperti. Leggi un libro a caso e ti accorgi che qualcuno ha già detto quello che pensi, ma con parole migliori. Anche ciò che sembra effimero è già stato definito: Coco Chanel ha inventato il vero stile, Mary Quant la vera minigonna, i Beatles il vero pop. Anche nel porno non esiste niente di simile alle prestazioni di Holmes. Poi sono arrivate le imitazioni da acquistarsi solo dopo aver oltrepassato la soglia della maggiore età. E' vero, rimangono i grandi misteri della natura, ma ci stanno lavorando gli scienziati. Nulla deve restare intentato, tutto deve essere chiaro, definito, riproducibile, sperimentabile, mappabile, indicizzabile, comprensibile, auscultabile, starnutibile, tossibile... Dica trentatré. Di sconosciuto, buchi neri a parte, resta poco. E anche i buchi neri sono una specie in via di estinzione.

Chi sono quelli che hanno scoperto tutto? Quand'è che si diventa esperti di qualcosa? Quand'è che si è un vero genio? Se un giorno ti svegli, ti cade una mela in testa e prima di dire “*&%$£§” ti viene in mente che può esistere una legge di gravità che ti ha ridotto con un bernoccolo mastodontico sulla fronte, allora sei un genio. Se un giorno, entrando in vasca da bagno sicuro di te nonostante l'acqua bollente, non ti metti a gridare ma noti che il livello dell'acqua sale quando ti immergi e si abbassa quando esci, allora sei un genio. Se sei stanco di sbattere contro tutti gli spigoli della caverna in cui vivi e fai di necessità virtù scoprendo il fuoco, allora hai addirittura dato una spinta definitiva all'evoluzione umana (oltre ad aver contribuito a far rientrare la fronte e l'arcata sopraccigliare). Ma noi, oggi, possiamo essere esperti o veri geni? Cos'è rimasto da inventare, oggi?
Hanno inventato il telefono per videochiamare, la caffettiera che si spegne da sola, le scarpe che si scaldano da sole, il computer portatile, il pagamento a rate, lo sbucciapatate razzo che pela un quintale di tuberi in cinque minuti... ma chi ha bisogno di un quintale di tuberi in cinque minuti? Esistono i veri inventori di una volta? In cosa possiamo definirci esperti, noi?

Noi siamo quelli che passano ore ed ore in fila. Murphy diceva che l'atra fila va sempre più veloce di quella in cui sei tu. Noi siamo esperti nel diventare delle iene quando constatiamo che Murphy aveva ragione. Noi siamo gli esperti del correre sotto la pioggia tentando di schivare le gocce e mentre lo facciamo cadiamo nelle pozzanghere. Noi siamo gli esperti della perdita di tempo. Abbiamo inventato fior fior di modi con i quali ingannare il fisco, il direttore del nostro ufficio, la maestra e anche il panettiere. Noi siamo gli esperti nel farci beccare. Noi siamo gli esperti del lavoro che non piace ma che serve per portare a casa la pagnotta. Siamo gli inventori del tirare a campare fino alla fine del mese. Siamo veri maestri nel metterci nei guai. Siamo veri maestri anche nel dimenticare di esserci messi nei guai e nel ricaderci. Siamo esperti nel prendere abbagli. Siamo i geni del telecomando. Siamo gli esperti che rispondono a casa alle domande dei quiz e si incazzano quando il concorrente sceglie l'altra opzione. Siamo piccoli geni incompresi e i nostri buchi nei calzini non fanno la storia come quelli di Einstein.

Però siamo anche quelli che, in questo mondo dove tutto è già stato detto e ridetto, tabulato, auscultato, tossito e riferito, vivono vite originali, ognuno la sua. Siamo quelli che ridono per una stronzata detta da un amico. Siamo quelli che pensano come mai non è rimasto niente da inventare e che sanno come usare, sprecare e dimenticare quello che è stato inventato. Ogni epoca ha avuto le sue grandi scoperte e le sue grandi menti. Quest'epoca ha noi. E di uguali non ne verranno.

Thursday, April 07, 2005

IL DISGELO

Quando arrivava la primavera e tutti noi frequentavamo ancora la scuola elementare, le maestre ci chiedevano sempre di scrivere un tema su questo nuovo fiorire della natura, come se insieme a lei anche i nostri pensieri dovessero rianimarsi e rinascere spontaneamente dopo una specie di letargo invernale del cervello. Non era tanto l'arrivo effettivo di una nuova stagione di rigeneramento collettivo che avrebbe dovuto farci nascere nuovi pensieri, che non erano mai originali in realtà, ma si trattava di una scadenza da rispettare. 21 marzo, arriva la primavera: largo alle riflessioni e alla creatività.

A distanza di tanti anni ancora non riesco ad esimermi dal rispettare questa scadenza, nonostante come sempre una vera primavera non sia ancora cominciata. Ma il 21 marzo è passato velocemente e non ho potuto fare a meno di tirare un sospiro di sollievo nel pensare che, da qui in avanti, tutto sarebbe andato meglio, almeno metereologicamente parlando. Non posso neppure sottrarmi dal sentirmi produttiva, attiva, creativa, riflessiva, anche se in realtà non mi sono mai sentita così fiacca. Dicono, però, che anche questo sia un effetto della primavera. Ma che sia vero? Che cos'è che ogni anno ci fa guardare al mondo, che è sempre uguale a se stesso, quando non arriva ad essere la propria caricatura, con occhi diversi non appena passa il 21 marzo? Quante volte ancora scriveremo anche solo mentalmente quel temino sulla primavera che arriva? Quante primavere vivremo ancora così stupiti del fatto che la vita va avanti, che tutto passa e torna, che sotto la neve che si scioglie c'è sempre la nostra terra, uguale e diversa ogni volta?

Quando nevica all'improvviso, quando non te l'aspetti se non per quel po' di vento secco che tira e che arrossa il naso, ci sentiamo sempre tutti molto eccitati, soprattutto se si ritiene di non essere in un posto dove nevica facilmente. Eppure un giorno comincia a cadere un fiocco, poi due. Uno pensa che “non attaccherà mai”. E invece attacca, eccome. Una coltre bianca copre tutti i luoghi della nostra quotidianità. Copre le buche che abbiamo scavato, le strade che percorriamo ogni santo giorno. Copre i nostri sbagli, le cazzate, le crepe. E' tutto bianco. Sotto tutto quello che volevamo nascondere, sopra tutto da poter rifare, calpestare, orme da lasciare: possiamo dare una nuova impronta alla nostra vita. Siccome non capita spesso, siamo effervescenti e chi se ne frega se siamo infagottati e con la goccia al naso: ricominciamo tutto daccapo.

Ad un certo punto però la neve però smette di scendere, diventa ghiacciata e non è più così facile lasciare nuove impronte che si distinguano da quelle degli altri. Quel senso di intensa eccitazione che provavamo nel guardare la nostra vita coprirsi di novità svanisce lentamente. Comincia a fare davvero freddo e sciarpa e guanti non sono sufficienti. Anche la novità diventa normalità ed è una normalità pericolosa: non sai mai dove mettere i piedi per non scivolare. Vorresti che la neve ricominciasse a cadere. Vorresti fosse sempre fresca e morbida. Invece compare un po' di sole caldo. Passi sotto un cornicione e ti cadono le gocce in testa. La neve si scioglie. Lentamente, ma si scioglie. Il disgelo non si può evitare. Così, le tue strade, le tue buche e le tue crepe riemergono. Sono sempre state lì, solo nascoste. Ma ogni volta, dopo la pausa invernale, le guardi ricomparire con tranquillità, perché è naturale che ricompaiano.

Forse è davvero questo quello che rimane di tanti anni di temini scritti con la biro blu sui quaderni a rigoni: la sicurezza di tornare a ciò che fa la nostra vita proprio la nostra, con le sue buche ma anche con i suoi prati fioriti. Ci vedi chiaro, sai che cosa devi affrontare, vedi la tua strada e decidi di cambiarla o decidi di percorrerla fino in fondo. Magari decidi di tornare indietro. Le buche, le crepe le vedi, le salti, le riempi, le aggiusti. I prati di fiori li coltivi. Oppure decidi che quest'anno si pianta frutta o che vendi quel terreno e te ne compri uno più piccolo, ma che ti piace di più. Quando arriva il disgelo ricominci a vedere chi sei. E puoi decidere senza l'illusione che sia veramente possibile nascondere per sempre la tua vita sotto la neve. Prima o poi la primavera arriva e tu, volente o nolente, sei sempre contento che arrivi.

Sunday, February 06, 2005

MUFFINS

Ho sognato di aver cucinato due muffins al cioccolato. Li tenevo in mano, avvolti nelle loro coppette bianche con il bordo arricciato. Erano piuttosto grandi, piuttosto belli a vedersi, con tutte quelle gocce marrone scuro. Li offrivo e nessuno li voleva mangiare. Io piangevo e gridavo. Vomitavo tutto il dolore che questi rifiuti mi causavano. Ero assolutamente incapace di smettere di gridare. Mentre sognavo mi chiedevo se due muffins valessero tutto questo dolore.

Mangio troppa cioccolata e non dovrei. Non so quando ho iniziato a fregarmene di quello che mi fa bene e di quello che mi fa male. Ad un certo punto credo che fregarsene di quello che, diciamo così, non fa proprio bene faccia sentire un po' più grandi. Fumare. Bere un bicchiere di troppo troppo spesso. Troppa cioccolata. Troppo caffè. Troppo coinvolgimento emotivo.

Strano. Col tempo si dovrebbe imparare ad essere distaccati. Io ancora non ci riesco, tanto che due muffins rifiutati mi causano anche in sogno un'ulcera. Non dovrebbe interessarmi se nessuno vuole i miei muffins: dovrei mangiarmeli io e basta. E' che mi chiedo se non dovrei piuttosto cucinare piatti più esotici, elaborati, irresistibili. Non credo che i muffins siano irresistibili. Forse ho sbagliato proprio a cucinare i muffins. Il problema è che se mi metto a pensare a un'altra cosa da cucinare mi vengono in mente biscotti, focacce, al massimo torte salate. A farla gigantesca mi viene in mente un po' di panna montata. Niente di interessante, devo ammettere.

Però i muffins sono speciali. Sono davvero buoni. Ci vuole un po' per preparali, ci devi mettere tanta delicatezza. Crescono piano nel forno, diventano grandi, sbocciano quasi come dei fiori. Dentro sono sempre caldi. Li metti in uno stampino ma strabordano senza mai esagerare. Alla fine sono sempre di più di quando li inforni. Se li fai fatti bene non possono non piacerti. E poi, a dire il vero, i muffins non si fanno a caso. Li cucini per allietare la giornata. Siccome ci vuole un po' di tempo per prepararli, ti ritagli uno spazio apposta per quelli. Li aspetti. Non possono non metterti di buon'umore. Col tempo preparerò anche piatti elaborati, non ho dubbi. Intanto ti ho lasciato un cestino di muffins davanti alla porta di casa. Assaggiali.

Wednesday, January 26, 2005

IL CIRCO

Pensavo che, dato che da qui a Pechino passano otto ore in avanti, se potessi correre avanti e indietro da lì a qui senza perdere troppo tempo sarebbe sempre adesso e non cambierebbe mai niente. Certo, se potessi non metterei in pratica proprio adesso adesso questo trucchetto. Sceglierei un adesso più felice di sicuro, un adesso meno solitario, meno tranquillo e meno nuvoloso. Correrei da Pechino a casa e avrei sempre le guance rosse e gli occhi brillanti, i capelli lunghi e neri, neanche l'ombra di un'occhiaia. Il tempo fermo mi stamperebbe sulla faccia un gran sorriso. Sceglierei un giorno d'estate. Invece da qui a Pechino ci vogliono quasi 12 ore di aereo, considerato che bisogna cambiare a Francoforte, volare su mezzo mondo e scendere infondo a destra sul planisfero. Manca il requisito fondamentale dell'immediatezza per mettere in pratica il mio trucchetto. Così non posso scegliere nessun giorno, sono i giorni che scelgono me. Non c'è stato il sole, oggi, non ho più i capelli lunghi e neri ma in compenso ho le occhiaie e le guance scavate. Non credo di aver sorriso, oggi.

Senza questo trucchetto mi rendo conto che non si rimane mai fermi nello stesso punto né tanto meno nello stesso momento: siamo zingari di noi stessi, nomadi senza sosta a volte senza un tendone da circo da piantare, mentre tante altre piantiamo un tendone grande, colorato, pieno di buffoni e buffonate, quasi grottesco. Poi nessuno viene a vedere lo spettacolo o magari entra qualcuno che dopo poco tira un pomodoro e un uovo marcio e se ne va. Che fatica cercare le risorse per comprare un tendone ed allestire lo spettacolo e poi accorgersi che nessuno verrà a vederlo o che i pochi che verranno ne rimarranno delusi. Lavoriamo sodo e duro per mettere su un bello spettacolo che invece non piace quasi mai a nessuno. Ma forse sbagliamo a pensare che serva uno spettacolo per attirare l'attenzione. Pensiamo che servano le cose grandi e piene di lustrini, piene di musica assordante e, possibilmente muniti di fanfara al seguito, andiamo in giro ad invitare la gente, estranei, a vedere il nostro sudatissimo lavoro. Da qualche parte ho letto che i gesti plateali non hanno mai salvato i popoli. Non sembra che abbiano salvato neppure me: il tendone del mio spettacolo, messo su a fatica e da sola, è vuoto.

Sui seggiolini dietro il margine della pista rimangono le tracce di quelli che sono passati di lì: pop corn sparsi e bicchieri rovesciati; mozziconi di sigaretta; bottiglie di birra semi vuote o vuote e rotte; tappi. La rete di emergenza ha un buco al centro enorme, per ricordare quando la star dello show, durante un triplo salto mortale-avvitato-carpiato-mescolato-rovesciato a metri e metri di altezza ha mancato di afferrare il trapezio ed è rovinosamente precipitata sfracellandosi al suolo e bucando perfino la rete di sicurezza, tanto era sparata. La segatura sulla pista è cosparsa di gocce rosse un po' rapprese, il suo sangue, di gocce azzurre un po' rapprese, le sue lacrime, e di cacca di cavallo un po' rappresa, il giusto contorno. Il cavallo ha rassegnato le dimissioni insieme all'orso e all'elefante. Hanno messo su una cooperativa di allevamento esseri umani per esibizioni su commissione, tipo per i compleanni o per gli anniversari e mi hanno chiesto se voglio lavorare per loro. Ci sto pensando.

Mi ricordo di una volta in cui sono andata a vedere uno spettacolo di gran classe in un tendone di pietra, dove si fanno solo spettacoli di alto livello e le star non si sfracellano sulla pista perché sono talmente discrete da non tentare neanche un triplo salto mortale avvitato-carpiato-mescolato-rovesciato: recitano una parte e sanno di essere molto brave. Non c'erano né mozziconi né bottiglie sul pavimento, non si poteva neppure mangiare, in quel posto. Non pensavo ci fossero circhi così. Tutto era talmente delicato, in quel posto, che hanno deciso perfino di non chiamarlo circo ma teatro. Al teatro io mi sentivo piccola, protetta. La musica non era affatto assordante ma delicata. Nessun cavallo ha dato disdetta e nessun orso ha fatto sciopero. Mi sentivo sicura anche se stavo in alto in alto perché non c'era nessun trapezio da prendere solo e solamente all'ultimo secondo, pena la delusione del pubblico. Stavo lì a guardare uno spettacolo messo in scena anche per me, che per una volta ho fatto parte di un pubblico, e che non aveva niente a che fare con la vita delle persone. Non era lo spettacolo della mia vita né della vita di nessun altro: era una finzione e basta e per vederla si pagava. Poi, solo dopo il termine dello spettacolo, iniziava la vita vera fuori dal teatro. Quando sono tornata al mio circo, allora, ho pensato che, dato che era vuoto, sarebbe stato meglio chiudere baracca e andare a vedere il teatro più spesso. Ho pensato che sarebbe stato meglio pagare un biglietto per rilassarsi un po' vedendo uno spettacolo e non cercare di fare i soldi allestendo uno spettacolo della propria vita.

Non si vola avanti e indietro da Pechino per rimanere sempre fermi nello stesso momento di felicità, ma a volte basterebbe cambiare punto di vista per rimanere felici più a lungo di quando ci affannavamo per rincorrere un briciolo di gioia. Non è facile cambiare punto di vista, lo sanno tutti, ma si può sempre provare. L'alternativa è volare avanti e indietro da Pechino senza perdere un secondo. Se riuscite, ditemi come si fa.

Saturday, January 15, 2005

LA MIA FAVOLA?

...Venite con me, nel mio mondo fatato per sognar... per sognar... il disco fa “click” e, vedrete, fra un po' si spegnerà... si spegnerà...

Non riesco a ricordare le parole con cui la voce del disco annunciava che presto sarebbe ricominciata un'altra favola. Ricordo perfettamente che provavo un profondo dispiacere nell'immaginare il “click” del trentatré giri che si fermava. La favola finiva.

Volevo scrivere la favola di un grande amore orientale del quale non rimane che un paio di orecchini finiti per caso su un banchetto di antiquariato in una fiera natalizia e che, guarda caso, capitavano proprio nelle mie mani. Volevo raccontare di un amore immenso capace di risorgere ad ogni alba con rinnovata intensità. Lei avrebbe avuto lunghi capelli neri ed occhi intensi, lui sarebbe stato alto e forte, con un sorriso caldo e rassicurante. Lei gli avrebbe giurato amore eterno e lui sarebbe partito per salvare il proprio popolo dall'invasore. Lei sarebbe sorta nel suo amore per l'ultima volta come un grande sole in un'alba fredda mentre lui sarebbe morto vincendo la guerra. Lei sarebbe caduta delicata come un petalo tra altri fiori... e nel tempo sarebbero rimasti solo due orecchini con sopra una fenice. Non era certamente una storia originale ma, a parte questo, rimane il fatto che non sono riuscita a scriverla. Non credo di saper raccontare amori. Penso che il mio trentatré giri si inceppi troppo spesso e ciò che si sente è un'intermittente serie di singhiozzi d'amore che fanno più ridere che tenerezza.

Ci sono storie che non si possono scrivere, originali o meno che siano. Non ci si inventa un amore che non esiste e, di conseguenza, non lo si può narrare. Mi domando se gli amori epici esistano ancora... A dire il vero mi domando se siano mai esistiti o se fossero le proiezioni o i desideri di uomini e donne dalla penna o dalla tastiera svelta che non trovavano nella vita una simile gioia. Romeo ha mai pensato che l'amica di Giulietta fosse più carina? Giulietta ha mai pensato di scappare a cavallo e prendere una barca per le Canarie e lasciare la nebbia di Verona? Orlando era innamorato o solo preda di una ineluttabile carica ormonale? Dante era innamorato di Beatrice o voleva semplicemente raccontare le perversioni del suo tempo con un'ottima scusa? Katie era attratta dal rude Heatcliff di montagna perché lui tagliava la legna a petto nudo, sudava ed era abbronzato nonostante non ci fosse mai un briciolo di sole a Cime Tempetose? In effetti poi lei sposava il ricco e gracile vicino di casa... Ma Heatcliff fu sempre davvero nella sua mente? Dove sta l'amore invincibile, che sorpassa il tempo e lo spazio, senza confini né condizionamenti... Dove sta il principe azzurro che con un bacio ti causa il vomito-di-mela e ti salva la vita? Dov'è il prode cacciatore che scuoia il lupo e ti fa uscire dal suo ventre promettendo che, non appena fossi stata più grande, sarebbe ripassato a “vedere come va”? Dove sono gli ingannevoli piaceri di quella donna capace di sedurre con dolci e profumo e poi, tolto scialle, parrucca, maschera vellutante, reggicalze e reggi-tutto diventa davvero una strega?

Dove sono il coraggio e l'incoscienza di sfidare la sorte e la società per un amore che lascia senza fiato? Perché non ci si abbandona agli amori che lasciano senza fiato? Perché quasi sempre il fiato va via solo ad uno dei due mentre l'altro guarda altrove e il primo finisce per soffocare? Nel mio cervello si susseguono buffe immagini di amanti cianotici che crollano a terra mentre l'altro guarda il cielo, le stelle, il mondo... Come mai siamo sempre più spesso gli unici tra due a sognare un amore? Come mai il nostro sogno non coincide mai con quello di nessuno? Come mai la vita si insinua nelle fessure del cuore e le chiude come se fosse mastice senza lasciare neppure uno spazio per far sbocciare un fiore? Non tutte le fessure del cuore sono ferite che devono essere ricoperte in fretta e furia... Alcune sono proprio il segno che il cuore, anche se con dolore, si apre e respira... Non c'è bisogno di mastice in quei casi. Ma spiegaglielo, a questa benedetta vita.

Forse le favole davvero non esistono. Forse sono favole solo perché non esistono e chi tenta di viverle ugualmente sbatte il naso sul dorso del libro più duro e pesante che sia mai stato messo in commercio: quello che racconta la storia della nostra vita. Rimane da capire come mai, nonostante tutta questa consapevolezza, uno vorrebbe proprio viverla, la sua favola. Forse siamo stupidi, forse non siamo mai cresciuti. Forse se non ci avessero mai raccontato le favole prima di addormentarci queste non sarebbero mai state ciò che accompagna dritti per la strada “del sogno”. Se ci avessero raccontato le favole, che so, prima di bruciare la verruchina che hai preso a nuoto, non sarebbero state così romantiche. Se ci avessero raccontato che il grande amore esiste davvero e sopravvive sempre mentre tiravano il collo all'anatra che avevamo vinto alla fiera, per poi servirla come succulento pranzo di pasqua, non credo avremmo vissuto a lungo in quest'illusione. Avremmo pensato, anche imprecando, che erano tutte cazzate. Forse si è trattato tutto di un grande complotto per ampliare l'industria di tutto ciò che ci consola quando ci accorgiamo che davvero questo amore non va.

Eppure io la mia favola ancora sono qui che l'aspetto... e la cosa più buffa è che ci credo davvero.

Saturday, January 01, 2005

QUANDO È IL MOMENTO

Quando la luce scompare lentamente e sopravvive solo una sottile striscia bianca all'orizzonte che diventa sempre più piccola. Quando si vedono solo i contorni di sagome nere e riesci ugualmente a capire e riconoscere ciò che vedi. Quando una luce tenue sopra il fornello illumina il fumo che esce da un pentolino senza il manico. Quando sul tavolo sono sparse tutte le tue cose e sullo schienale della sedia è appesa la tua borsa. Quando alzi gli occhi e la sottile striscia bianca all'orizzonte non c'è più. Quando un pianoforte suona tutta la tua malinconia e sembra parlare di te. Quando ricordi due corpi nudi immersi nell'acqua calda di lacrime. Quando ricordi il grigio di una cucina disordinata dopo ore di risate. Quando ti rendi conto che, neppure questa volta, stai raccontando nulla. Quando senti un buco nello stomaco e freddo sulle spalle, nonostante il maglione grosso. Quando cerchi disperatamente di fissare un momento ma tutto continua troppo veloce. Quando hai paura che tutti questi “quando” siano troppi. Quando poi non ti importa, perché è una cosa che senti e “quando” è quello che ci vuole. Quando la tecnologia ti ricorda che l'ultima cosa che avresti voluto dire non l'hai detta. Quando pensi che alla fine non dirai mai quella cosa. Quando giri il cucchiaino nella tazza del Tè e tintinna come un campanello. Quando fai un sorso piccolo e senti ancora più freddo sulle spalle, nonostante il maglione grosso. Quando alzi gli occhi ancora e ormai l'unica luce è quella calda della lampada sul tavolo. Quando ti guardi intorno e cerchi tutto ciò che ti è familiare per non sentirti persa, per non sentirti lontano da casa. Quando pensi ad una lunga notte con compagni di viaggio tutti ancora in partenza. Quando pensi che anche tu dovresti essere in partenza e invece rimani. Quando nella penombra guardi foto che hanno ormai vent'anni e pensi che non avresti mai pensato di dire 'sono già passati vent'anni'. Quando ci sono occhi che ti guardano da dentro i tuoi ricordi. Quando ti rendi conto che tu coi tuoi occhi non ti riconosci più. Quando ormai è troppo tardi e le lacrime annebbiano la vista delle lettere sulla tastiera. Quando il ritmo della melodia è in crescendo come l'emozione forte che senti.

È un momento. È il tardo pomeriggio del primo giorno dell'anno. È che non è niente. È che è bello essere vivi. È che è solo un momento. È che sei tu.